Qualche riga sul Camino Francès


Qualche riga sul Camino Francès

Non si sa che succederà, nei mesi del prossimo e vicino 2021. Ma la nostra speranza è che si riesca a tornare, finalmente, a percorrere un lungo cammino. Nell’attesa di scoprire cosa il Fato ha in serbo per noi, chi ne ha voglia potrà leggere qualche riga del mio caro vecchio libro Peregrinos, ristampato in una veste grafica molto elegante da Touring in questa primavera. Buona lettura e buoni prossimi viaggi.

A piedi. Ovviamente.

 

Capitolo 3 – L’edificazione del Camino

Santo Domingo de la Calzada

 

Il mio consiglio è di avanzare tre miglia

fino a Santo Domingo, nel cui ospedale si trovano

cibo e bevande […] Non bisogna dimenticare

le galline dietro all’altare […] Il fatto che volarono

via dalla cucina so per certo che non è falso,

perché io stesso ho visto la pentola da cui volarono

e la cucina dove erano state cotte…

Arnold Von Harff, Il pellegrinaggio del cavaliere

Arnold Von Harff, 1496/1499

 

All’alba, i campi coltivati e i vigneti che attraverso, dopo aver lasciato le ultime abitazioni di Azofra, sono illuminati da una luce meravigliosa, che cambia continuamente lampeggiando attraverso le nuvole che corrono veloci. Una lieve salita porta fino alle case arroccate di Cirueña, con una sosta obbligata sulla plaza Mayor per un caffè e per la lettura dei giornali, che in questo maggio spagnolo sembrano oramai travolti dal ciclone mediatico del matrimonio reale tra Felipe di Borbone e Grecia, erede al trono di Spagna, e la giornalista televisiva Letizia Ortiz Rocasolano.

Stamattina, dopo un paio d’ore di silenzio e solitudine, mi trovo a camminare con un pellegrino francese che – senza cattiveria – mi sembra la caricatura del suo popolo disegnata dai feroci vignettisti britannici del mitico “Punch”. Basso, abbastanza rotondo, con baffetti sottili e uno splendido basco nero sulla testa, François mi racconta la sua storia con la noncuranza tipica con cui, in un non-luogo come questo lungo Cammino, ci si apre completamente a dei perfetti sconosciuti. Pilota di linea per una compagnia regionale francese, disoccupato da quasi un anno, non riusciva più a resistere allo shock del cambio di vita, chiuso in casa, con la televisione sempre accesa. Di colpo, mi spiega, «invece che iniziare a litigare con moglie e figli ho deciso di partire per Santiago. Per cercare un senso a tutto questo – se mai questo senso esiste – e, forse, per trovare un nuovo inizio».

Parliamo ancora. Ancora in salita: stavolta la meta è un colle, dall’alto del quale si scorge la cittadina di Santo Domingo de la Calzada, distesa nella pianura sulle rive del río Oja. Mentre iniziamo la discesa verso le case e i campanili coperti di nidi di cicogne, François mi racconta il suo personale incontro con le tentazioni di Satana, che nelle cronache medievali sembra non facesse altro che insidiare i poveri pellegrini sulla via di Compostela: «Durante la tappa verso Estella ero completamente a pezzi. Avevo dolori ai piedi, ero giù di morale, con vesciche addirittura sulle spalle, dove sfregano gli spallacci dello zaino. A un certo punto ho sentito provenire da dietro il rumore di un motore che si avvicinava lungo la strada. Quasi senza accorgermene ho alzato la mano sinistra con il pollice in su. Non sapevo quello che stavo facendo, per lo meno non coscientemente, ma il caso ha voluto che il guidatore non si sia fermato alla mia richiesta di autostop. Ringrazio Dio e la mia fortuna, ora. Se fossi salito su quella macchina, rifiutando di camminare e soffrire sui miei piedi e con le mie spalle, avrei buttato tutto alle ortiche. Avrei fallito il mio viaggio».

Felice di non aver ceduto alle lusinghe di un perfido demonio alla guida di una banale seat Ibiza, oramai François cammina felice e spedito e, entrando in città, mi saluta frettolosamente perché non vuole perdere tempo in visite. Per lui, oggi, tappa lunga.

E, nei prossimi 24 giorni lungo la “via delle stelle”, non mi capiterà più di incontrarlo, anche se qualcuno mi dirà che aveva sentito parlare di me da un piccolo pilota francese, allegro, spiritoso e gran bevitore.

Dopo la lunga parentesi della periferia urbana, sempre percorsa seguendo le frecce gialle che si inseguono tra pali della luce e marciapiedi, facciate di palazzi e tombini consumati, si entra finalmente nella parte più antica della cittadina, dedicata a uno degli artefici più celebri del Camino de Santiago.

Narrano le storie medievali che il futuro santo Domingo de la Calzada (tradotto letteralmente, san Domenico della Strada), nato a Viloria de la Rioja nel 1019, era uno dei mille eremiti che popolavano le colline e gli anfratti della tebaide di una Spagna ancora contesa ai musulmani. Vistosi respinta la sua richiesta di entrare nel monastero di San Millán de la Cogolla (forse le sue origini erano troppo modeste), Domingo costruì una minuscola cappella non lontano dalla via su cui transitavano i pellegrini diretti verso la lontana cattedrale di Compostela. Impietosito dalle fatiche e dalle sofferenze di una così grande moltitudine di devoti che si trovavano ad arrancare nel fango e a guadare a rischio della vita fiumi e torrenti, Domingo capì finalmente la sua vocazione. E trascorse il resto della vita a costruire un lungo tratto di strada selciata tra Nájera e Redecilla del Camino, ricalcando il tracciato dell’antica via romana che collegava Bordeaux ad Astorga, e un ponte in pietra sul río Oja. Seguendo il suo esempio – ci spiega Aymeri Picaud nelle pagine del Liber Sancti Jacobi – furono molti coloro che «ripararono, per pietoso amore di Dio e dell’apostolo, il Camino de Santiago», attirandosi le benedizioni di pellegrini e viandanti. E, dopo aver parlato di un francese che nel 1215 costruì con grande fatica un ponte di pietra vicino alla città di Portomarín, il nostro cronista scrive con entusiasmo di pregare «perché le anime di questi uomini e dei loro aiutanti riposino eternamente in pace». Mentre gli emuli e i discepoli di Domingo (che sarebbe stato proclamato patrono degli ingegneri spagnoli) davano il via alla costruzione di ponti, come quello di Logroño, l’ex eremita venne dichiarato santo e, attorno alla sua tomba venerata, iniziò a crescere una cattedrale del tutto particolare.

Dopo aver lasciato il mio affezionato zaino rosso nell’androne dell’ostello cittadino, una sorta di luogo franco dove si può riposare, depositare bagagli, mangiare un panino e incontrarsi come si usava nel medioevo, cerco di ricompormi un po’ per arrivare alla biglietteria della cattedrale in uno stato almeno presentabile. Ci riesco meglio del previsto, tanto che l’arcigna monaca alla cassa – nonostante gli scarponi impolverati e il naso scottato – non crede che io sia un pellegrino e, in assenza della credencial, che riposa nella tasca dello zaino, mi impone inflessibilmente di pagare il biglietto intero.

Oltre il grande chiostro, nella chiesa – cattedrale dal 1232 – si respira quell’aria solenne che un po’ intimorisce il viandante, anche se un particolare stona decisamente con l’ambiente: ogni pochi minuti, da una navata laterale, echeggiano fortissimi sotto alle volte gotiche il canto di un gallo e i ripetuti coccodè di una gallina. Mentre cerco la fonte del rumore, mi trovo davanti al mausoleo sotto cui riposano le spoglie del santo, venerabile icona medievale dal volto austero e dalle mani callose che, da muratore, costruì pietra su pietra la sua via verso la santità. E in alto, al di sopra di un arco, sta la struttura di un gallinero, in cui si pavoneggiano un gallo e una gallina dalle piume immacolate, per nulla intimoriti dalla piccola folla che li osserva con il naso all’insù.

«Per gli allevatori della zona è un onore fornire ogni due mesi una coppia di pennuti bianchi alla cattedrale» mi spiega uno dei sagrestani della chiesa mentre, decisamente infastidito, cerca di zittire il chiacchiericcio lampeggiante di un gruppetto di giapponesi. «Il miracolo che questi animali ricordano è forse uno dei più belli del Camino, fatto di stupore, fantasia galoppante e geniale inventiva narrativa medievale» conclude, svelando una profonda conoscenza dei secoli d’oro del grande pellegrinaggio giacobeo.

Narrato in varie contrade d’Europa con qualche leggera variante, il portento ebbe come prologo uno dei contrasti tra pellegrini e osti così frequenti lungo le vie di Canterbury, di Roma e di Santiago. Invaghitasi di Hugonel, un giovane pellegrino tedesco diretto a Compostela, la figlia di un albergatore – che immaginiamo un po’ avanti con gli anni e non proprio attraente – di fronte al diniego del ragazzo decise di giocargli un tiro molto poco simpatico. Nascose tra i poveri bagagli di Hugonel un pezzo d’argenteria e, una volta che il giovane ebbe lasciato il paese insieme con i genitori, si affrettò a denunciare il furto al balivo. La giustizia, all’epoca, correva veloce. Trovata una tazza di grande valore nella sacca del pellegrino, questi venne condannato e impiccato seduta stante, nonostante le suppliche del padre e della madre. La quale poi, decisa a chiedere aiuto a Santiago, ripartì di gran carriera con il marito verso Compostela, dove l’apostolo, comparsole di persona nella cattedrale, la rassicurò dicendo che il figlio era vivo e che l’aspettava. La lunga corsa a ritroso dei genitori si concluse all’ombra della forca da cui pendeva il giovane che, appena ebbe la madre vicina ai suoi piedi, esclamò: «Non piangere madre, sono 28 giorni che Santiago mi sostiene». Ebbra di felicità, la donna corse a raccontare il miracolo al balivo che, probabilmente seduto a tavola in pantofole in attesa della cena, la schernì dicendo che suo figlio era morto di sicuro, tanto quanto le galline che bollivano da ore nella pentola sul fuoco alle sue spalle. A quel punto, con un colpo di teatro veramente d’eccezione, i due pennuti emersero di colpo dalla pentola e presero a cantare a squarciagola la gloria di Dio. Il ragazzo, riconosciuto innocente, fu salvato, gli accusatori condannati, e lungo sentieri e ostelli del Cammino si sparse come il vento il proverbio (in uso, sembra, ancora oggi) che celebra «Santo Domingo de la Calzada, donde cantó la gallina después de asada».

La chiesa, che divenne immediatamente una tappa fondamentale per i pellegrini diretti a Compostela, conserva le tracce della sua lunga evoluzione storica. O, forse, il tempo della visita mi sembra solo un’alternativa molto piacevole al continuo camminare. Dall’abside romanica alle volte gotiche, che si perdono nella semioscurità a 25 metri d’altezza, ogni secolo ha portato un nuovo altare, un retablo dorato, una cappella. Il gallinero, costruito nel 1445, è un delizioso pollaio pensile in forme gotiche e – mi spiega il sagrestano, oramai divenuto amichevole e loquace dopo la dipartita dei giapponesi – i pezzi di legno annerito che vedo a fianco della gabbia sono i resti della forca che fu testimone del miracolo.