Dimensioni: 27 x 23
Pubblicazione: 2010
Iban: 9788809752702
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Della mia passione per i sotterranei credo di avere già parlato a sufficienza. Questo libro di qualche anno fa è stato il terzo passo nella storia della mia esplorazione dei sotterranei urbani d’Italia (i primi erano stati un libro per Mursia e uno per De Agostini). Cui sono certo ne seguirà una quarta, anche perché il numero di ipogei italiani esplorati e aperti al pubblico continua a crescere e l’interesse di studiosi, curiosi, speleologi e normali turisti per ciò che si trova nel mondo di sotto non accenna a diminuire. Le pagine che seguono sono quelle dedicate ai sotterranei di Napoli.
“Centinaia di cavità enormi. Cunicoli lunghi chilometri. Tracce di tre acquedotti sotterranei di epoche diverse. Questa è la Napoli di sotto, un complesso unico in Italia e nel mondo, che spesso offre scoperte importanti e ogni tanto causa grande apprensione a causa di crolli e smottamenti. Qui esiste veramente una città sotterranea, nata dalle decine di collegamenti che, nel corso dei secoli, sono stati scavati per unire tra loro cisterne, acquedotti e rifugi antiaerei. “Napoli ha sotto di sé un’altra città” spiega con un sospiro Goffredo Lombardi, l’ingegnere che ha l’onore e l’onere di dirigere l’Ufficio Sottosuolo comunale, una delle poche strutture di questo genere esistenti in Italia. “Cave, acquedotti, pozzi: tutto un mondo che nel corso dei secoli si è evoluto e modificato, collegando tra loro i vuoti creati dai greci, dai romani, dai napoletani dell’epoca spagnola”. La data di nascita della Napoli di sotto è molto antica: furono infatti i greci i primi a cercare, scavando nel cuore della roccia vulcanica su cui sorge la città, la pietra da costruzione più adatta per i monumenti e le mura della loro Neapolis. Dalla cava più antica che si conosca, la cosiddetta Cava Greca scavata nell’altura su cui venne poi costruito il cimitero di Poggioreale i greci estrassero la pietra necessaria alle fortificazioni. Molti anni fa, scendendo da un pozzo che si apre nella volta della grande sala, Enzo Albertini è stato il primo esploratore di quella che probabilmente è la più antica cavità artificiale di Napoli. La situazione statica di questo grande vuoto non è delle migliori: crolli e smottamenti che si sono succeduti nei secoli ne hanno reso complesse le forme e invitano alla prudenza. “Quanto è estesa la città sotterranea? Difficile dirlo” continua Lombardi. “Comunque parliamo di decine di migliaia di metri quadrati e di milioni di metri cubi. Di cui conosciamo la gran parte, ma non tutto”. Durante l’epoca della città greca venne scavato l’acquedotto della Bolla, che proveniva dalle sorgenti nella piana di Volla ai piedi del Vesuvio e che correva al di sotto del centro della città. La Napoli romana fu una città importante e per la sua crescita fu necessario l’acquedotto realizzato da Augusto che partiva da un bacino alimentato dalle acque del Serino, nella zona di Avellino. Da qui si diramavano due diverse condutture, la prima diretta verso Benevento e la seconda che raggiungeva Napoli dopo aver costeggiato le falde dell’altura di Capodimonte. Anche il ramo napoletano dell’acquedotto augusteo aveva una sua biforcazione: una galleria alimentava il centro, mentre una sua derivazione passava per il Vomero e infine giungeva a Cuma e riforniva l’imponente cisterna della Piscina Mirabilis di Miseno che era stata costruita a servizio della flotta dell’impero.
Le vie dell’acqua
Uscita dal medioevo Napoli iniziò nuovamente a cambiare aspetto. Nel Rinascimento e nei secoli del grande sviluppo cittadino, ogni grande palazzo del centro veniva costruito scavando verso il basso per estrarre la pietra necessaria alla sua struttura. Poi il vuoto veniva reso impermeabile, collegato alle gallerie della rete idrica e infine richiuso, diventando così la cisterna privata del palazzo di superficie. Abbastanza frequentemente, quando la cisterna di un palazzo si era vuotata, era necessario chiamare i pozzari, i veri e propri padroni del sottosuolo, e chiedere di riempirla. Compito relativamente facile, possibile manovrando le paratie sotterranee che aprivano e chiudevano le gallerie che dall’acquedotto portavano alle singole riserve. In questo modo nacque, si sviluppò e visse la sua storia quotidiana una rete sempre più complessa di vuoti sotterranei – alcuni di dimensioni veramente impressionanti, alti come un palazzo di dieci piani – che si estende sotto le vie e le piazze di Napoli. Di pari passo iniziarono a circolare per la città leggende curiose o agghiaccianti ispirate dai lavoratori del sottosuolo. Il re di queste storie è sempre stato il monaciello, cioè una specie di spirito che si diceva risiedesse nel cuore dei palazzi e delle case: non è difficile immaginare che la figura fosse ispirata dai pozzari in carne e ossa che potevano essere scambiati per dei frati, con il loro mantello sollevato a coprire il capo per ripararsi dall’umidità. E che avevano una discreta facilità ad entrare nelle case provenendo dai pozzi, in genere per insidiare le belle signore napoletane quando i loro mariti erano lontani. Alla topografia idrica del sottosuolo, che agli albori del ‘600 non era più sufficiente alla grande Napoli dell’epoca, si aggiunse nel 1639 un nuovo acquedotto che captava le acque del fiume Isclero nella zona di Sant’Agata dei Goti. Quest’opera, che prese il nome dal suo finanziatore Cesare Carmignano, alimentava numerose fontane pubbliche ed entrava ovviamente in contatto con le reti idriche più antiche. Fino a che nel 1881, dopo una serie di violente epidemie di colera dovute anche alla qualità delle acque provenienti da cisterne e acquedotti, iniziarono i lavori per un moderno acquedotto, proveniente anch’esso dal Serino. Aveva infatti scritto il responsabile dell’Ufficio Tecnico Municipale, Guglielmo Melisurgo, dopo le sue ispezioni nella rete idrica in questo periodo: “…l’acqua di alimentazione era tutta inquinata per una comunanza che esisteva tra gli acquedotti e le vasche d’acqua potabile e le fogne, al punto che le disinfestazioni con acido fenico inquinarono le acque potabili e quelle del sottosuolo anche usate per gli usi della vita”. La moderna conduttura ottocentesca veniva distribuita in città e venne terminata nel 1885 con una solenne cerimonia durante la quale l’acqua zampillò finalmente da una grande fontana in piazza Plebiscito.
In fuga dalle bombe
Alla fine degli anni ’30, con il conflitto imminente, il sottosuolo napoletano venne esplorato e attrezzato per centinaia di ricoveri antiaerei, che avrebbero ospitato per giorni e giorni gli abitanti durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. “Quando al suono della sirena di allarme, io vedo fiumane di miei napoletani scomparire in questa Città sotterranea” scrisse nelle sue ultime memorie del 1943 Melisurgo, che aveva continuato per decenni l’esplorazione dei sotterranei urbani “la mia anima rivolge un pensiero di gratitudine alla Divina Provvidenza che volle ispirarmi a svelare a Napoli quest’altra Città che, col mio lavoro non compensato e di mia iniziativa, ho fatto conoscere”. Rifugi ce ne sono ovunque, nel centro di Napoli, anche se di alcuni di questi si sono perse le tracce e in alcuni casi solo qualche anziano si ricorda ancora degli ingressi, magari scomparsi dietro a muri moderni più o meno legali. I rifugi antiaerei di questo periodo avevano delle caratteristiche comuni: anzitutto dovevano essere dotati di almeno due accessi, per evitare il rischio legato ai crolli di una delle scale, erano illuminati con un impianto elettrico di cui ancora oggi si vedono tracce e, nelle zone più lontane dall’esterno, erano dotati di rudimentali blocchi di servizi igienici. Mario Alamaro, geometra che lavora per l’Ufficio Sottosuolo, indica verso l’alto la volta delle enormi cisterne: siamo a una quota di una quarantina di metri sotto al livello dei vicoli e, affacciandosi da uno dei parapetti che ci circondano, il vuoto prosegue verso il basso per forse 35 metri. Come a dire che, dalla volta della cisterna più alta al fondo della più bassa, sotto al cortile di questo palazzo di Calata San Mattia si trova un vuoto di un’ottantina di metri: alto come un palazzo di quindici piani. “Il sottosuolo di Napoli ha avuto una parte importantissima nella storia della città, durante il suo momento più buio” racconta Alamaro, mentre la sua torcia illumina rudimentali gabinetti e scritte vergate negli anni ’40. “Qui i napoletani hanno vissuto anche per settimane, mentre le bombe colpivano il porto e le stazioni ferroviarie cittadine”. Scendendo le lunghe scale che portano a un altro rifugio inizia la visita che l’associazione Napoli Sotterranea offre tutti i giorni tra gallerie, acquedotti e cisterne, iniziando dalla piazzetta dedicata a San Gaetano. Proprio in questo rifugio antiaereo, nel 1943, durante la frenetica discesa verso il basso mentre le bombe cadevano sulla città, a causa della ressa e di una caduta in massa morirono più di 70 persone. Quello che si estende alla base della scala del rifugio di piazza San Gaetano è un po’ un riassunto di tutto quel che si trova sotto Napoli: cisterne echeggianti e stretti tratti dell’acquedotto della Bolla, rifugi antiaerei che si estendono a fianco a ciò che rimane di antiche cave.
I sotterranei di Nerone
Se sotto piazza San Gaetano l’antico acquedotto è il protagonista della visita, il centro storico napoletano conserva anche tracce di strutture monumentali ben più imponenti. Sullo stretto Vico Cinquesanti, tra piazza San Gaetano e la strada dell’Anticaglia, si aprono sulla via le porte dei bassi: le case che avevano di solito come unico accesso verso l’esterno la piccola porta d’ingresso. In uno di questi, pochi gradini portano in una cantina d’eccezione, dove le murature di opus reticolatum sorreggono gli archi della scena del teatro romano sulla quale, come racconta Svetonio: “Nerone fece il suo debutto a Napoli e, benché il teatro avesse improvvisamente tremato per una scossa di terremoto, non cessò di cantare prima di aver finito il pezzo che aveva iniziato…”. La scena dove l’imperatore aveva deciso di mettere in scena le sue arti – che secondo i critici dell’epoca sembra non fossero eccelse – non è scomparsa, è stata semplicemente inglobata nei palazzi della zona che ne conservano le forme semicircolari. Osservando una pianta della zona, oppure guardando il centro di Napoli dalle foto aeree facilmente disponibili su Internet, si nota immediatamente che un gruppo di palazzi conserva la forma semicircolare dell’antico teatro, avendone sfruttato le strutture come fondamenta. Un’ultima tappa in questa zona, dove si trovavano l’agorà greca e il foro della città romana, si trova al di sotto del complesso monumentale di San Lorenzo Maggiore. La chiesa e il monastero divennero sempre più importanti per la città con il trascorrere del tempo. All’inizio del ‘500 venne costruita la chiesa in forme gotiche, mentre sotto alle volte della sala capitolare nel corso del ‘600 e ‘700 si svolsero frequentemente i consigli del regno. Di epoca greca sono le fondamenta in tufo di una struttura (forse un tempio) che sorgeva sull’agorà, mentre di età romana sono i resti del macellum, il mercato alimentare dell’epoca, e una strada lastricata lunga alcune decine di metri su cui si aprivano delle botteghe. Grossi cardini – sede quindi di una robusta porta – hanno fatto pensare agli archeologi che una di queste ospitasse l’Aerarium, cioè l’erario dov’era custodito il tesoro della città. Gli scavi si sono conclusi da poco ma è facile intuire che attorno agli spazi archeologici oggi aperti al pubblico, celati da mura e fondamenta, esistano ancora molti resti della città antica.
Il buio della fede
Sfiorando quattro cupi teschi di bronzo, consumati dalle carezze dei passanti e ornati dai fiori che ogni giorno vengono cambiati dai dirimpettai di via dei Tribunali, si può entrare nell’ambiente barocco della chiesa del Purgatorio ad Arco. Fondata nel 1605, la Congregazione delle Anime del Purgatorio aveva come scopo la celebrazione di quotidiane messe di suffragio per le anime confinate a metà strada tra inferno e paradiso, e avrebbe dato il via nel 1616 all’edificazione della chiesa. Laddove si trovava la cripta originaria, il culto delle anime del Purgatorio ha trovato uno dei suoi punti di forza e sopravvive ancora oggi. In questo sotterraneo mal illuminato, con tratti di pareti scrostate o ricoperte da incongrue mattonelle celesti, cumuli di ossa e teschi sono stati adottati dal popolo dei devoti che chiedono alle anime ogni tipo di grazia o concessione, dalla salute alla fortuna al gioco. Ancora oggi, dopo i decenni in cui la Chiesa ha cercato con decisione di scoraggiare questo culto ai limiti dell’ortodossia, nella cripta del Purgatorio ad Arco è facile trovare fiori freschi, rosari, fotografie e suppliche. Come davanti al teschio di Lucia (la tradizione popolare lo identifica con una ragazza morta per amore nel ‘600, che si dice interceda di preferenza per ragazze e donne) dove si accumulano biglietti con suppliche e preghiere. Diffuso in vari luoghi della città, il culto delle anime penitenti avrebbe però trovato la sua sede ideale in uno dei luoghi sotterranei più impressionanti della città. Cioè sotto alle volte dell’ossario di Fontanelle, che si trova alla base delle pareti che delimitano il vallone dei Vergini, nella parta più alta del Rione Sanità. Qui si allineano lungo le pareti di roccia vulcanica color ocra (il cosiddetto Tufo Giallo napoletano) migliaia di teschi, già che la cava di Fontanelle era stata trasformata alla metà del ‘600, in occasione di una terribile pestilenza, in un grandioso cimitero con il compito di ospitare le spoglie provenienti da decine di cimiteri cittadini. “Questo è molto più di un ossario” spiega Goffredo Lombardi “sotto alle volte delle Fontanelle si trova il punto di contatto tra Napoli e l’aldilà: qui i napoletani hanno sempre pregato per le anime del Purgatorio. Non in modo disinteressato, però, ma anche con lo scopo di ottenere grazie di tutti i generi”. Il numero dei napoletani sepolto al di sotto di queste volte non è certo, anche se le tradizioni parlano di otto milioni di persone, cioè moltissime in più dei resti che sono oggi visibili. Si tratta di una cifra quasi incredibile, ma qualcosa di vero nella convinzione popolare potrebbe esserci, già che il pavimento originario della enorme cava non è quello attuale, ma si trova ben 18 metri più in basso. E, durante i lavori di restauro, i tecnici del comune incaricati di scavare una trincea che doveva ospitare i cavi elettrici non hanno trovato, al di sotto del pavimento attuale, altro che ossa. La cava, dopo aver raccolto le spoglie innumerevoli dei pezzentelli di Napoli, si trasformò in un luogo di culto alla fine del ‘700 e documenti storici parlano di gruppi di donne del rione popolare che lavorarono alla ciclopica opera di riordinare, seguendo una scenografia molto particolare, tutti i resti umani che erano stati accatastati alla rinfusa. Oggi, una delle gallerie di Fontanelle è dominata dalla statua, in realtà un po’ sinistra ma in fondo ben adattata all’ambiente, che raffigura Gaetano Barbati, il canonico che fu promotore della sistemazione scenografica dell’ossario e fondò anche un’opera pia dedicata al suffragio delle “anime in pena”. Qui la religione ufficiale riuscì sia a convivere con la fede popolare che a sconfinare per anni in un culto quasi pagano, basato su uno scambio alla pari tra il fedele e il teschio, che rappresentava una precisa anima confinata in Purgatorio. Una volta scelto un cranio, lo si adottava garantendogli una sistemazione (alcuni sono ancora contenuti in delle cassette decorate) e lo si accudiva, andando in visita e raccontando le storie della propria vita al teschio silenzioso. A cui, in caso di necessità, si potevano poi chiedere favori di ogni genere, dai più importanti ai più minuti, come ad esempio i numeri da giocare al lotto. Tra le richieste trovate nel corso dei restauri sui bigliettini lasciati nei teschi vale la pena di citarne una, particolarmente toccante. “Napoli 3/4/1944. La famiglia dell’aviere Lista Ciro trovandosi senza notizie di suo figlio da pochi giorni dopo l’Armistizio e quindi sono otto mesi ed essendo devota di voi aspetta con tanta fede da voi la bella grazia”. Nella penombra delle Fontanelle si aggirò anche una smarrita Ingrid Bergman che, in una scena del “Viaggio in Italia” di Roberto Rossellini, aveva accompagnato un’amica napoletana venuta a chiedere la grazia di un figlio. Tra migliaia di crani e di ossa, a Fontanelle sono solo due le salme che riposano in bare di legno: si tratta delle spoglie del marchese Carafa e di sua moglie che nel ‘600 erano i proprietari della cava che sarebbe stata trasformata in ossario. E che giacciono, impolverati e ovviamente silenti, a poca distanza dagli innumerevoli poveretti che affollano l’ossario di Napoli. “Anche Totò, che abitava non lontano da qui, quando scrisse la sua poesia ‘A Livella forse stava pensando proprio alle navate in penombra di questo luogo” conclude Lombardi “e mi piace pensare che abbia scritto qui quelli che sono divenuti i suoi versi più famosi…” Tanti teschi, tutti uguali, tutti in fila ordinata. E, nelle parole di Totò, le spoglie di uno spazzino che mormorano al vicino, in vita un ricco supponente: “’A morte ‘o ssaje ched’ ’e?…è una livella./ ‘Nu rre,’nu maggistrato,’nu grand’ommo,/ trasenno stu canciello ha fatt’o punto / c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme:/ tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?/ Perciò, stamme a ssenti…nun fa’ ‘o restivo,/ suppuorteme vicino – che te ‘mporta? / Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:/ nuje simmo serie…appartenimmo à morte!”