Peregrinos


Peregrinos

Peregrinos
Peregrinos – Touring Editore | Fabrizio Ardito

Touring Editore

Anno: 2005

Pagine: 224

Dimensioni: 18 x 13 x 2 cm

EAN: 9788836533244

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780 chilometri, 33 giorni, circa un milione di passi. Queste le “misure” del cammino lungo il più famoso itinerario di pellegrinaggio del mondo, che dai colli innevati dei Pirenei conduce fino alla tomba dell’apostolo Giacomo, nel cuore della cattedrale di Santiago de Compostela. Esperienza privata e spirituale più che strettamente religiosa per la maggior parte dei peregrinos, il viaggio verso Compostela attraversa regioni diverse per storia, tradizioni e paesaggi. Questo libro vuole anche essere un racconto su cos’è il Cammino e su chi lo percorre, su un piccolo mondo cosmopolita che si muove lungo salite, discese e interminabili pianure appartenenti a una via spirituale ma anche a un grande itinerario turistico e storico.

 

Queste sono le parole della copertina, che però spiegano solo in parte l’immensa meraviglia e il fascino del mio primo viaggio verso Santiago. Con la scoperta di camminatori, storie, leggende e dell’esistenza del tendine tibiale che, per qualche giorno, mi ha fatto vedere i sorci verdi prima di diventare, come tutto sul cammino, solo un pezzetto del ricordo della via.

 

Dal capitolo 2

Carlo Magno e i suoi paladini

 

“L’avevo giurato a me stesso, di non mettermi mai a contare passi, ore, minuti o chilometri. E, come in molti altri casi nella mia vita, sono venuto meno al giuramento. Ma la circostanza che più mi fa innervosire con me stesso è che sto contando i miei passi durante la prima tappa del Camino de Santiago. E, sotto una pioggerellina fastidiosa, a conti fatti il risultato non mi piace per nulla. Sulla salita asfaltata verso l’Alto de Ibañeta, porta storica dalla Francia verso le vicine terre di Navarra, scopro che mi servono circa 1250 passi per coprire un chilometro. Già che i chilometri che “ancora mi mancano” (ridicolo pensarlo da qui) sono circa 780, giungo alla conclusione che i passi necessari saranno circa un milione. Bella cifra tonda, che a dire la verità non sembra poi neanche tanto impressionante, solo incalcolabile, un po’ come i fantastiliardi o gli zirlioni del deposito del vecchio zio Paperone.

Il prologo alla partenza vera e propria è stato un’esperienza strana, lenta e dilatata, come se a poco a poco mi stessi allontanando dal mondo della vita di tutti i giorni. Un lungo viaggio in treno – Roma, Genova e Nizza, poi, dopo una notte di scarso sonno, Bayonne oramai a un passo dai Pirenei – mi stava portando dentro all’universo particolare del pellegrinaggio. Tant’é che a Nizza, seduto su una panchina in attesa del vecchissimo e scrostato treno letto diretto verso le onde dell’Altantico, ero riuscito a identificare subito ben quattro pellegrini. Cioè, per dirla tutta, quattro futuri colleghi. Facilissimo distinguerli: zaino sulle spalle, concha cucita alla bell’e meglio sullo zaino, addirittura, in un caso, il bordone di legno scuro stretto nella mano. Parte integrante dell’abbigliamento del pellegrino medioevale, il bordone, necessario per tenere a bada cani randagi e briganti di mezza tacca, aveva addirittura diritto a una sua benedizione particolare, nei lunghi secoli medioevali del pellegrinaggio verso la tomba dell’apostolo. “Ricevete queste bisacce e questi bastoni” recitava la preghiera della partenza nel X secolo “e dirigetevi verso le reliquie degli apostoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo affinché, per l’intercessione di Maria Santissima e di tutti gli apostoli e di tutti i santi, meritiate di ricevere in questo secolo la remissione di tutti i peccati…” Intanto, sistemati zaini e bordoni, benedetti o meno, sulle reticelle portabagagli di una carrozza fatiscente (ma le ferrovie francesi non erano un’azienda all’avanguardia nella customer care?) ci avventuriamo, attraverso il nero della notte provenzale, in una prima chiacchierata su quello che stiamo per fare, sul milione di passi che ci attende. E capisco immediatamente una cosa. Chi ha già percorso il Camino – ed è il caso di due dei miei compagni di viaggio di stanotte – ha un atteggiamento di notevole sufficienza nei confronti dei neofiti. Tende a terrorizzarli con il racconto di tappe faticose, zaini pesanti, tendiniti, uragani e vesciche a non finire. Forte della mia incoscienza e aiutato dal sonno, poco a poco sento scomparire le voci nel rumore splendido, evocativo e soporifero delle ruote che sferragliano sui binari. All’alba, mentre tutti dormono ancora, mi affaccio sul corridoio dove le moderne e tecnologiche macchine per il caffé delle ferrovie francesi sono tutte guaste e le piccole stazioni che attraversiamo, oltrepassata oramai Tolosa e circondati dalle colline verde scuro delle propaggini dei Pirenei, completamente deserte. Poi, finalmente, con un cigolio spettrale questo treno rugginoso si ferma nella stazione di Bayonne, capitale dei paesi Baschi francesi. Nota ai più, soprattutto in Francia, per il suo prosciutto crudo, la cittadina è cresciuta grazie alla sua fortunata posizione sulla confluenza della Nive e dell’Adour e, anche, per il suo ruolo lungo la via della devozione giacobea. La storia di Bayonne è complicata, mi rendo conto mentre passeggio per le sue strade, e alla stazione non esiste un deposito bagagli “à cause du risque d’al-Quaeda” mi spiega un accigliato poliziotto. Così, la passeggiata con il mio zaino sulle spalle verso la cattedrale di Sainte Marie diventa un po’ più pesante del dovuto, quasi un prologo alla prima tappa del Camino, prevista per l’indomani. Il tempo da trascorrere non è poco: il piccolo treno diesel diretto verso Saint Jean Pied-de-Port parte nel primo pomeriggio e, già un paio d’ore prima, sulle panchine della stazione s’inizia a raccogliere una piccola folla di aspiranti pellegrini: qualche italiano, pochi francesi. Un’ora prima della partenza verso le montagne, arrivano i nordici: un treno proveniente dal Parigi semina sul marciapiede un eterogeneo gruppo di francesi, danesi, tedeschi che hanno seguito una via differente per giungere fino qui alle porte del Camino. Poi, finalmente, si parte. Sulle carrozze di seconda classe di un convoglio locale dove il tenue confine tra il mondo normale e l’universo del Camino de Santiago è stato oramai superato. I pochi passeggeri normali – qualche studente diretto verso casa, un paio di signore, due anziani che tornano al paese dopo una visita in un ospedale nel capoluogo – si ritirano volontariamente in un angolo della carrozza, lasciando alla nostra comunità vociante il dominio sulla scena. La carrozza, disertata anche dai controllori che probabilmente ritengono che tanto fervore religioso debba portare immancabilmente all’acquisto del biglietto, sembra un deposito di attrezzature da trekking. Zaini belli, brutti, grandi e piccoli. Borracce d’alluminio e acciaio che rotolano a ogni fermata. Bastoncini telescopici da trekking (bordoni high-tech anch’essi?) che fanno inciampare chiunque si muova. E, già che il tempo è spiacevolmente piovigginoso, un assortimento di giacche di gore-tex, poncho sgargianti, pantaloni impermeabili e cappellini colora il verde topo del treno dei mille colori della moda outdoor del terzo millennio.

Saint Jean Pied-de-Port deve il suo nome all’essere, appunto, ai piedi di un port, cioè di un colle. E che colle! La leggenda più famosa della cristianità situa qui una delle scene più drammatiche del medioevo, cui si sarebbero ispirati scrittori, pittori e miniaturisti per secoli. “Il conte Rolando, con gran pena, grande sforzo e dolore suona il suo olifante. E dalla sua bocca sgorga il sangue chiaro e si rompono le tempie della sua fronte, ma il suono del corno che impugna si spande ben lontano…” Qui su, poco più di mille metri di dislivello al di sopra dei tetti dell’ultimo borgo in terra di Francia, si sarebbe consumato nel 778 l’eccidio del paladino Rolando da parte dei Saraceni (secondo la leggenda) oppure semplicemente di un gruppo di soldati dell’esercito di Carlo Magno alle prese con dei feroci montanari baschi. Ma poco importa. Nel mito, Rolando e la sua spada Durlindana brillano tra le rocce di Roncisvalle, mito fondante della guerra lunga e sanguinosa che avrebbe schierato l’uno di fronte all’altro per sei secoli almeno gli eserciti dei califfi e dei re cattolici. E anch’essi, come ho scoperto solamente in quest’ultimo mese, parte del mito del pellegrinaggio di Compostela. Parte integrante del Codex Calixtinus, librone duecentesco conservato a Santiago che contiene anche un’antica guida per i pellegrini, il racconto attribuito al vescovo Turpino lega tra loro l’epopea carolingia e l’apostolo Giacomo. Il grande re dei Franchi, infatti, sarebbe sceso in Spagna non solo per combattere i mori, ma con il preciso intento di “liberare la tomba dell’apostolo” dalla molesta presenza degli infedeli. Un po’ intimorito – sia dall’importanza storica delle montagne che mi sovrastano sia dall’aspetto cupo e temporalesco del cielo che ci attende alla stazione di Saint Jean-Pied-de-Port – passo sotto l’arco della Porta di Francia e raggiungo l’ufficio di accoglienza dei pellegrini. Qui, dopo aver compilato un modulo necessario alla redazione delle statistiche dei camminatori impegnati sulla via di Santiago, riesco ad ottenere il primo timbro sulla mia credencial nuova di zecca. Via di mezzo tra un passaporto e una tessera a punti, la credencial è uno degli elementi fondamentali del pellegrinaggio: permette di accedere agli ostelli e albergue che s’incontrano lungo la via, testimonia il cammino fatto e, una volta raggiunta la lontanissima meta, permetterà di ricevere la Compostela, cioè l’attestato dell’avvenuto pellegrinaggio rilasciato dall’arcidiocesi di Santiago. Ammiro il mio primo timbro e l’occhio mi cade sui documenti di un gruppo di camminatori che hanno l’aria molto più consunta di me. Sono francesi e vengono da Le Puy-en-Velay, a una trentina di giorni di cammino da qui, come il loro nobile e antico predecessore ecclesiastico di rango. Godescalco, vescovo di Puy, che decise di partire verso Santiago nel 951 accompagnato da una numerosa comitiva di baroni, clerici, trovatori e militari di scorta. E così, per molti francesi di oggi, forti del loro sciovinismo anche in tema di pellegrinaggio, la “vera” via giacobea non parte dalle case dove mi trovo io ora, a Saint Jean Pied-de-Port, ma dal centro della Francia. Comunque, che questo sia il punto di partenza o la metà della strada, dalla via principale del paese si esce verso la Porta di Navarra, lungo una strada in leggera salita che porta fino all’Alto de Ibañeta e il grande ospizio per pellegrini di Roncisvalle.

L’ultima sera prima della partenza, in una piccola maison d’hôtes gestita dalla signora Yvette, ricevo qualche delucidazione introduttiva sul Camino e sulle sue dinamiche. La casa che ospita le tre camere per i pellegrini è del ‘500, piena di gatti e arredata con il disordine tipico delle case di campagna. “Il mio scopo è arrivare ad avere 18 posti disponibili” mi spiega Yvette offrendo una seconda tazza del suo cafè filtre quasi imbevibile “non di più per non dover sottostare alle leggi che regolano gli alberghi veri e propri. Credo sia stata una buona idea, quella di offrire ospitalità ai pellegrini di Santiago: ogni anno il numero aumenta e, anche se i mesi più affollati sono luglio e agosto, oramai in tutto l’anno ci sono camminatori di passaggio”. In grande crescita, a suo giudizio, è il numero dei pellegrini brasiliani grazie ad una serie di reportage fotografici realizzati da una giornalista di Rio de Janeiro negli ultimi anni. Quando le chiedo se il libro di Paulo Coelho dedicato al Camino ha avuto la sua importanza, Yvette inorridisce e quasi rovescia il suo caffè sul mio unico e prezioso paio di pantaloni disponibile (il secondo si è già bagnato nel pomeriggio piovoso). “Quel libro sarà anche bello” mi minaccia brandendo il suo cucchiaino “ma non c’entra nulla con l’anima e la realtà del Camino. Tant’é che Coelho, lo sanno tutti, ha fatto buona parte del percorso in macchina, altro che!”.

Severamente ammonito su ciò che scoprirò essere uno dei più severi e ricorrenti tabù del Camino (mai parlare bene di Coelho), dopo una cena in cui il caso vuole che attorno al tavolo ci si incontri in sette, tutti italiani, la mattina seguente mi trovo a contare stupidamente la lunghezza dei miei passi salendo sotto una pioggerella leggera in direzione del mitico passo di Roncisvalle. In Spagna si entra subito alle case di Valcarlos, dopo pochi chilometri e la strada è noiosa anche perchè, già che la stagione è molto arretrata, la via più alta che traversa la montagna è ancora resa pericolosa dalla neve. “Tanto che un pellegrino olandese c’è morto tre settimane fa” mi aveva ammonito la grassottella panettiera del paese a cui avevo chiesto informazioni, che poi aveva concluso “Se volete morire, potete andare per la via alta anche voi!”. Una minaccia così diretta ha fatto il suo dovuto effetto e così le ore trascorrono lungo la strada asfaltata che sale ripida, con la consolazione di quattro chiacchiere ogni tanto con i miei occasionali compagni di viaggio. Che sudano e sbuffano nel clima umido, indecisi se bagnarsi con la pioggerella che scende dal cielo o con la consensa che sale dentro la giacca a vento. Sbuffano un po’ tutti a parte Werner, altoatesino e atletico, che sembra camminare alla stessa velocità in salita, in piano e in discesa. Il gruppo si sfilaccia a poco a poco – ognuno cerca di seguire il proprio passo senza fermarsi troppo – e finalmente, rimasti in due, raggiungiamo dopo uno splendido tratto in un bosco maestoso le pietre dell’Alto de Ibañeta. Proprio come Carlo Magno, qualche secolo fa, aveva fatto in uno stato d’animo ben diverso dal nostro. “Pieno di disperazione cavalca il re Carlo… con ardore tutti i baroni di Francia spronano i loro cavalli. Non uno che non si lamenti di non essere con Rolando, il capitano, che lotta contro i Saraceni di Spagna. E’ così gravemente ferito che, a mio avviso, non sopravviverà. Ma Dio, che uomini sono i sessanta che restano con lui! Mai re né capitano n’ebbe di migliori.” Oggi, 1.226 anni dopo, il colle è spazzato dal vento che porta pioggia e nebbia vorticante. Oltre la strada asfaltata che incontriamo nuovamente s’intravedono due sagome. Una, la più grande, è quella di un’orribile cappella di cemento armato che offre però un minimo di rifugio dalle raffiche. La seconda, coperta di fiori lasciati da decine di passanti, è la stele dedicata all’ultima battaglia del grande eroe della cristianità medioevale. “Morto è Rolando, Dio ne ha l’anima in cielo. L’imperatore raggiunge Roncisvalle. Non c’è via né sentiero”. E Carlo, il più grande imperatore dell’Europa delle origini, del continente dalle radici cristiane di cui tanto si discute oggi, su queste rocce inizia a piangere, strappandosi la barba e chiamando a gran voce i nomi dei suoi valorosi paladini, trucidati e portati via dal nemico. Olivier, Gerin, Gerers, Berenger, Gerard de Roussillon, Rolando. Il mito di questa scaramuccia di retroguardia, declamato nelle corti di tutto il mondo cristiano, non sarebbe mai morto, anzi avrebbe dato il via a un filone letterario d’eccezione, fiorito di gesta di cavalieri e scontri brutali, di gloria militare e d’amor cortese. Dal passo, che non sembra un luogo particolarmente epico anche perché oramai non si vede più nulla, un piacevole sentiero scende verso il monastero di Roncisvalle, vera e propria celebrazione architettonica dell’importanza del ciclo carolingio e del pellegrinaggio medioevale verso Santiago de Compostela. “Cominciammo a scendere per un quarto di lega fin che discoprimmo il tanto da noi bramato Roncisvalle” scrisse il pellegrino toscano Domenico Laffi felice che la sua tappa fosse giunta al termine “il che ci cagionò, quanto più improvvisa, tanto maggiore allegrezza poiché, essendo egli coperto di monti e da foltissimi arbori, quando pensavamo di esserne molto lontani, vi ci trovammo su le porte, scendemmo dunque giù per una salicata e entrammo sotto un gran voltone, dentro del quale, a mano dritta, vi sono moltissimi sepolcri antichi, dentro dei quali si conservano le ceneri di molti re, duchi, marchesi, conti, paladini e signori che morirono in quel gran fatto d’arme, memorabile per tutti i secoli…

L’ospedale di Roncisvalle, insieme a quello costruito sulla vetta del lontano O Cebreiro, è uno delle più antiche strutture create per assistere i pellegrini lungo la via verso Compostela. Il complesso di Roncisvalle divenne famosissimo nel medioevo dopo la diffusione dell’epica Chanson de Roland e del Codex Calixtinus. Oltre che punto di sosta, benedetto in giornate fredde, nebbiose come questa di oggi o gelate in inverno, l’ospizio di Roncisvalle diventò una delle tappe irrinunciabili per gli uomini del medioevo, che qui potevano venerare delle armi che la leggenda attribuiva allo sfortunato paladino. Voluto dal re d’Aragona e dal vescovo di Pamplona, l’ospizio venne gestito a lungo dai monaci agostiniani. Per questo celebre ostello, la leggenda carolingia e la figura del prode paladino sono state nei secoli certamente un motivo di notorietà e un buon affare. Un manoscritto del XIII secolo, probabilmente un poema commissionato proprio dai frati che gestivano il celebre ospedale, così lo descrive: “non ce ne sono che reggano il paragone con questo fra gli ospedali presenti lungo le strade che portano a Santiago e nessuno è così tanto frequentato… La porta è aperta per tutti, malati e sani; non solo ai cattolici ma anche ai pagani, agli ebrei, agli eretici, agli oziosi, ai frivoli, in una parola ai buoni e ai profani”.

Al centro della collegiata si trova la candida tomba del re Sancho el Fuerte, vicina alla statua della vergine di Roncisvalle. Nella grande sala capitolare del complesso, entro finalmente nel mio primo albergue per pellegrini, con una certa soggezione. Le scarpe fradice rimangono in una rastrelliera all’ingresso e noto che, come gesto di accoglienza, due ospedalieri stanno aiutando i pellegrini affranti e sgocciolanti a togliersi scarponi e giacche a vento. La sala, con le sue volte gotiche, è lunga una cinquantina di metri ed è occupata quasi completamente da tre file di letti a castello. Dormitorio per un’ottantina di persone, è stato trasformato con l’aggiunta di un sotterraneo moderno con bagni, docce, lavatrici e asciugatrici. Il simpatico hospitalero che mi accoglie è olandese, è venuto fin qui in bicicletta, e mi racconta la sua storia mentre – solitari fumatori all’aperto in un mondo fatto quasi completamente oramai di salutisti – vediamo giungere lentamente gli ultimi camminatori della giornata, provati dai 1250 metri di dislivello che hanno percorso nelle ultime ore…”

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