Dimensioni: 18 x 13
Pubblicazione: 2007
Iban: 9788836544127
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Quello che segue, se avete voglia di perdere un po’ di tempo, è il capitolo 8, dedicato al valico della Cisa e alle tappe che lo precedono e lo seguono.
“In a lonely coffin
You don’t call my name
There is no telephone
No television, No complaints.
In a lonely coffin
You don’t have to ask
There’s no new year’s plans
No resurrection of the past.”
Minus 5, Lonely coffin
L’umore è bigio, stamane, come il tempo. Forse la causa è stato il rumore della pioggia che ha battuto tutta la notte contro la mia finestra. Oppure il fatto di avere qualche senso di colpa che mi ha tormentato per aver trascorso una giornata d’ozio a Fidenza. O infine le parole di una canzone che mi aleggia nella testa da giorni e parla di bare solitarie… Fatto sta che stamattina, dopo un ottimo caffè Illy e una piacevole conversazione con i frati già sulla rampa di lancio per le loro molteplici e frenetiche attività, mi metto per strada verso l’appennino bardato con giacca a vento hi-tech e coprizaino arancione, tanto per non dare nell’occhio. La via che seguo sale e scende dolcemente – in effetti mi rendo conto che devo superare una serie di bassi spartiacque minori prima di raggiungere la vallata del Taro che si dirige verso Fornovo – e raggiungo Costamezzana in un clima un po’ migliore, già che la pioggia ha smesso di cadere. In questo tratto faccio la conoscenza di un elemento veramente particolare di questo versante dell’appennino: una fanghiglia appiccicosa come la nutella che, dopo pochi passi a fianco di un vigneto di Costamezzana, forma uno strato di cinque centimetri di spessore sotto gli scarponi, rendendo assai difficile stare in piedi. Una decina di giorni più tardi, camminando lemme lemme verso San Gimignano, il mio amico Mario, profondo conoscitire delle insidie della montagna emiliana, mi spiegherà che la fanghiglia di queste contrade è nota in tutto il mondo per essere la più tenace e malefica del creato. Di nuovo sull’asfalto di una strada secondaria, mentre ringrazio il cielo per la fine dell’orrida fangaia, l’occhio viene immediatamente catturato dal dolce zigzagare di una strada bianca che sale di fronte a me tra campi coltivati verdissimi. Lieto di contribuire con così poco allo sviluppo dell’arte fotografica, mi fermo per immortalare la stradina e poi, solo poi, mi rendo conto che proprio di lì dovrò passare. Il momento è terribile: la salita è ripida, il fango tenace e feroce e anche i tentativi di camminare sull’erba a fianco della ignobile trappola di mota si rivelano poco fruttuosi: i campi sono arati e composti (ahimè) dalla stessa materia gelatinosa. Ci metto una buona mezz’ora a salire un chilometro di strada e arrivo in cima ridotto in uno stato pietoso. Sono nervoso, infangato fino alle ginocchia, bagnato per le deviazioni tra le spighe e sbuffante come una pentola a pressione. Forse, almeno in questo, i pellegrini medievali erano avvantaggiati, già che non credo che sotto ai piedi nudi si possa attaccare tanto fango. Sbarco finalmente a Madesano, giusto in tempo per terrorizzare ben benino i proprietari di un bar in cui mi accomodo a fare merenda, impiastrato di fango come un bimbetto della Montessori che ha fatto le torte di fango, poi riparto per colli e campi fino a Felegara, da dove mi aspetta l’ultima lunga e noiosa pedalata (per di più lungo la strada SS 62 della Cisa) verso Fornovo. Un piacevole momento della giornata è quello dell’attraversamento del Taro e dell’abbandono della statale per l’entrata in paese. Gesto decisivo e facile da farsi ora, ma in epoca medievale operazione molto più complessa: al ponte romano era infatti stato sostituito un ponte medievale con una domus pontis e un ospizio per pellegrini gestito dai frati che seguivano la regola degli ospitalieri di Altopascio. Ma un crollo dopo l’altro, a causa delle piene rabbiose del Taro, avevano spesso portato i viaggiatori a traversare il fiume alla meno peggio: in barca o a guado, fino all’Ottocento. Sono stanco e infangato, ma la prospettiva di un po’ di riposo lontano dai miei vestiti umidi e dagli scarponi ancora color giallino rende appassionante la visita al piccolo duomo di Santa Maria Assunta che conserva parte della facciata originale, con sculture e bassorilievi (tra cui quella di un pellegrino che indica la via, anche se probabilmente non si trova più nella sua posizione originaria). All’interno, a ben vedere, l’altare riserva una grande sorpresa: è stato costruito utilizzando una splendida lastra con le scene del martirio di Santa Margherita di Antiochia. La sera, mentre i calzini si asciugano al venticello fresco e la pancia brontola soddisfatta in attesa della cena, mi rendo conto di essere tornato quasi felice. Il panorama della pianura padana è oramai lontano alle mie spalle e intanto attorno a me il colpo d’occhio è cambiato decisamente: alberi e alberelli coprono i versanti e, a ben vedere, non si trova una pianta di riso neanche a pagarla oro.
Dopo una accurata spesa al supermercato di Fornovo, utile precauzione prima di affrontare selvagge vallate e monti nebbiosi, inizio a salire sul serio fino a Sivizzano, dove un bar/giornalaio/tabaccaio risolve con un colpo di bacchetta magica tutti i miei problemi contingenti. Esco dal paese seguendo delle bellissime frecce bianche e rosse che segnalano una via che si perde immediatamente tra le frasche e, mentre guado un ameno ruscello vengo sfiorato da due caprioli in corsa che sbucano dal sottobosco. Lascio perdere le argute proposte escursionistiche di chissà quale sognatore e, seguendo la strada per fortuna tranquilla, raggiungo la pieve di Bardone, solo soletto su una piazza silenziosa. Una dopo l’altra infastidisco tutte le famiglie del paese per trovare le chiavi della chiesa e, una volta entrato, scopro con grande meraviglia che all’interno è conservata una fantastica collezione di rilievi e statue provenienti dalle vecchie chiese precedenti, sistemate qui dopo i restauri terminati per il 2000. In mezzo a questa splendida collezione, illustrata con cortesia dalla fanciulla che mi ha fatto entrare in chiesa, c’è una eccezionale Deposizione dalla Croce, in probabilmente pala d’altare, che secondo gli storici dell’arte “costituisce la principale attrattiva della chiesa: è evidente la vicinanza del soggetto a quello della lastra antelamica nel Duomo di Parma, caposaldo della scultura del XII secolo, ma l’anonimo e plebano scultore di Bardone, il cui scalpello ricorda quello delle Storie di Santa Margherita della Pieve di Fornovo, tratta il tema in chiave rusticissima, corposa, concreta, affidando a Giuseppe D’Arimatea due grosse tenaglie da fabbro per staccare il corpo di Cristo dalla Croce”. In un angolo, a testimoniare la vicinanza del mondo reale da quello spirituale (e della vita di tutti i giorni dalle tentazioni diaboliche), una donna sostiene la pila dell’acquasanta, ma a ben vedere dal marmo della vasca fanno capolino figure di demoni. Lasciata la chiesa, mi trovo di fronte a una salita che conduce a Terenzo, paese ripido su una ripida costa tanto che anche il comune si sviluppa su tre piani e poi la via sempre più erta, decolla verso il castello di Casola. Una frazione dopo l’altra, la giornata trascorre abbastanza piacevolmente, e quando mi fermo a mangiare qualcosa mi rendo conto che è giunta l’ora di fare un nuovo buco alla cintura dei pantaloni. Per tutta la salita sento nel bosco rumori di animali di grossa taglia e poi, prima di arrivare a Castello di Casola, per tre volte dei cerbiatti scostumati mi girano intorno – emettendo in continuazione dei versi non proprio carini – prima di scappare via a balzelloni. Trovo l’ultimo tratto fino a Cassio abbastanza lungo (probabilmente sono un po’ stanco), ma il paesaggio è sempre più aperto e piacevole: siamo tra i 700 e gli 800 metri di quota e, finalmente raggiunto il paese, trovo facilmente il piccolo rifugio ricavato in una vecchia casa cantoniera rosso fuoco dell’ANAS. Il gentile gestore dell’ostello mi apre, mi offre una maglietta della via Francigena a buon prezzo (la mia unica maglia di cotone di ricambio non si è più asciugata granché bene) e mi racconta del passaggio dei pellegrini per la sua piacevole magione. “Oggi doveva arrivare una pellegrina svizzera partita da Sivizzano, mi aveva chiamato per confermare. Ma è sparita e non ne so più nulla. Se per caso dovesse arrivare stanotte le potresti aprire tu?” Spiego che non ho problemi, prima di scoprire che i viaggiatori diretti verso Roma sono assai pochi, nell’ordine di alcune decine dall’inizio dell’anno, ma che si aspetta un discreto affollamento tra qualche settimana perché la provincia di Parma ha organizzato una manifestazione che si chiama (guarda un po’) Cammina cammina che prevede dieci giorni di tragitto a piedi assistito da un furgone per il trasporto bagagli da Parma a Sarzana. La notte trascorre serena, solo soletto nella casa cantoniera, dopo una cena al bar trattoria di Cassio dove un ragazzo ucraino ha cercato varie volte di spiegarmi senza successo cosa sono le fettuccine ai funghi. Gloriosa partenza, dopo una colazione al bar con il mio amico gestore, verso il passo della Cisa. A fianco alla strada che corre su una cresta si vedono in lontananza nella vallata le sagome bianche e spettrali dei Salti del Diavolo, speroni di roccia bianca che emergono dal verde fitto della vegetazione. Se siete curiosi di sapere di che si tratta esattamente, posso solo dire, citando ovviamente un geologo, che “la loro formazione è costituita da arenarie e da conglomerati poligenici, i cui componenti sono rappresentati principalmente da rocce sedimentarie mesozoiche con alcune rocce eruttive e metamorfiche (graniti, gneiss, quarziti, porfidi, ecc.)”. Sperando di aver chiarito quel che c’era da chiarire ai miei simpatici ed esigenti lettori, proseguo fino ad affacciarmi dall’alto su Berceto, con al centro la chiesa di San Moderanno che spicca tra le case. La storia leggendaria della vita di questo sant’uomo, dal nome decisamente e inevitabilmente medievale, è bellissima, e in paese mi fermo a prendere appunti per un bel po’ di tempo in mezzo al viavai di turisti motorizzati. “Ai tempi del re Kiplerico” scrive la Vita Sancti Moderanni di Badoino “si distinse un uomo di nobile stirpe, di nome Moderanno, il quale per grazia di Dio e secondo un certo prestigio del suo nome, vivendo con senno e moderazione nella pratica della vita, meritò di essere nominato vescovo di Reims. In processo di tempo e con licenza del re predetto, mettendosi in assetto a recarsi a Roma a compiere la visita al tempio di San Pietro, di cui era singolarmente devoto, si diresse al monastero del beato Remigio, apostolo dei Franchi, che è costruito nel suburbio della potentissima città di Reims … Presentandosi pertanto con gentile parlare ed accolto splendidamente dai monaci, supplicò Ermeardo custode dei sacri tesori, a volergli concedere qualche reliquia del SS Remigio; questi non fu alieno dal concedergli una particelle dalla stola, del cilicio e del sudario del suddetto santo”. E così, lungo la via Francigena che aveva intrapreso da una città che si trova ben 22 tappe oltre il passo del Gran San Bernardo, Moderanno e il suo seguito di chierici s’incamminarono verso Roma con la sua urna contenente le reliquie di San Remigio. Ma il prodigio, segno decisivo di quell’epoca, era dietro l’angolo. “Ricevutele con animo grato” narra un anonimo cronista bercetese “riprese l’iniziato cammino e dopo alcuni giorni venne al monte Bardone in Italia dove, passandovi la notte, ebbe cura di appendere con venerazione le reliquie ad un ramo di quercia. Levatosi quindi all’alba riprese l’iniziato cammino senza ricordarsi dei sacri pegni (e ciò come si crede per volere di Dio) i quali rimasero abbandonati nello stesso luogo. Stando già il vescovo per toccare la cima di monte Bardone, ricordatosi delle reliquie sospese sulla quercia, subito inviò un suo diacono di nome Vulfato con l’ordine di prenderle e portarle con lui. Ma giunto colà il chierico, per quanto si sforzasse, non gli fu possibile prenderle e portarle a lui perché queste per cenno divino, venivano sollevate più in alto. Quando il predetto vescovo ebbe ascoltato il predetto prodigio, ritornando indietro piantò le tende sul luogo medesimo, sforzandosi anch’egli in quella notte di prenderle; ma non poté sino a che a giorno fatto e con l’aiuto di Dio e l’intercessione del Beato Remigio, non ebbe celebrato la messa nel monastero di nome Berceto, costruito in onore di Sant’Abbondio martire ed ivi depositando con venerazione le reliquie di San Remigio”. Le reliquie, alla fine, rifiutarono di muoversi da Berceto e, quando Moderanno incontrò il re Liutprando, il sovrano udito il portento assegnò il monastero di Berceto al sant’uomo. Concludono la storia le parole prima dell’Anonimo e poi di Badoino: “Moderanno … rinunciando al suo episcopato di Rennes, nell’AD 719 venne al monte Bardone come un pastore, conducendo con sé una gran comitiva di servi della gleba da lui affrancati…” “E in quel luogo condusse vita moderata ed onorata come servo di Dio sino alla sua morte. Per cui anche al giorno d’oggi il luogo viene chiamato Sancte Moderanne”. Sono ammirato, mentre finisco di copiare sul mio quaderno nero (il diciottesimo di una lunga stirpe che mi segue da un bel po’ di anni) la fantastica storia medievale. Con alcuni particolari splendidi: la decisione di portare con sé un brandello del cilicio, la dimenticanza delle reliquie appese a un albero, l’albero che cresce di colpo per far sfuggire la preziosa sacca alle mani di un diacono evidentemente seccato di essere tornato qui dopo essere arrivato fino al passo della Cisa (a 4 o 5 ore da qui). Felice di aver incontrato un’altra figura così imponente lungo il mio cammino, mi carico sulle spalle oramai asciutte il mio amicone rosso e mi dirigo verso il duomo. Sulla facciata sinistra davanti alla quale mi trovo, ai lati di un portale si trovano le due statue di Pietro e Paolo, quasi un invito ai pellegrini come me a proseguire il cammino verso Roma. Mentre sto fotografando il bassorilievo che rappresenta il piccolo San Pietro con una grande chiave, una signora francese bene in carne con una macchina fotografica – che è qui con un gruppo a visitare “les voies des pelerins” domanda alle amiche, nel suo gallico idioma, “come mai questo tonto non si sposta”. Il tonto in questione, che sarei io, vede comparire come in sogno il vecchio Sigerico che si rimbocca le maniche per insegnare l’educazione alla grassona, ma poi decide di essere molto gentile: le spiego solo che so bene il francese e che forse di testoni ce ne sono molti in Francia (vedi l’esempio di un famoso calciatore transalpino) e soprattutto nella sua famiglia. Felice per aver risolto così elegantemente un piccolo incidente di percorso, lascio Berceto, forse uno dei paesi dove esistono più cartelli con scritto via Francigena in Italia, senza neanche trovare una singola freccetta per chi va a piedi. Ci sono addirittura le frecce che indicano un parco intitolato a Toro Seduto ma, per i camminatori diretti a Roma, nulla. Lungo la salita che s’inerpica a mezza costa nel bosco, ad un tratto lo stabilimento abbandonato dell’acqua minerale San Moderanno si manifesta come un segno chiaro che sono sulla retta via, poi un cartellino indica che l’ostello della Cisa mi attende verso valle, e lascio il sentiero principale scendendo nel bosco. Finché si cammina tra le piante, i segni sono abbastanza evidenti. Ma quando si traversa un pianoro erboso, con l’erba alta, ritrovare il pertugio giusto nella macchia sull’altro lato diventa difficile. Fortunosamente raggiungo la statale e, a poca distanza, la grande mole della casa cantoniera mi attende con un ragazzo simpatico che, appena arrivato, mi fa accomodare davanti a una birra fresca. Durante la serata, trascorsa anche qui in una bella camerata in completa solitudine, scopro molte cose sulla statale della Cisa. Un tempo via Francigena, poi strada napoleonica, infine grande arteria dell’Italia appena entrata nel mondo dell’automobile, oggi la statale è decisamente abbandonata. Anche i motociclisti, mi spiega il gestore, che un tempo venivano da tutta Europa per percorrere la strada che serpeggia tra le foreste, sembra stiano diminuendo a causa del cattivo stato del fondo stradale. E un comitato locale ha deciso di lanciare una iniziativa per il restauro e la conservazione della statale della Cisa che, se abbandonata a sé stessa, potrebbe diventare abbastanza rapidamente un ramo morto. La notte trascorre tra lampi e fulmini – come si addice a una notte nel punto più alto e montano del mio viaggio dopo aver lasciato la Valle d’Aosta – e la mattina dopo piove leggermente, mentre mi incammino lungo gli ultimi due chilometri che mi separano dal passo, a 1041 metri di quota. In questo punto, la via fatta costruire da Napoleone valicava le montagne non lontano dall’antico passo medievale, dove in epoca longobarda esisteva un ospitale titolato alla Madonna. Il bar del valico è fortunatamente aperto, in una nebbiona sgocciolante in cui non si riesce a vedere a più di venti metri. E da questa bambagia umida sbucano fuori due ragazzi siciliani con zaino e un assurdo ombrellino a fiori, che cercano informazioni su un itinerario escursionistico lungo il crinale. Li guardo e li ammiro. Sono giovani, non hanno idea di dove sono (o ne hanno una molto vaga) sono carichi di tende e scatolame e hanno in programma di partire lungo il crinale dell’Appennino in una giornata veramente orribile. A poca distanza si trova la chiesa di Nostra Signora della Guardia, costruita nel 1921, che conserva una serie di cimeli che la dicono lunga sull’importanza di questa via nel nostro passato prossimo. Maglie rosa del giro d’Italia e trofei lasciati, come dei moderni ex voto, a ricordo e ringraziamento della vittoria.
Nel bar, mentre stiamo perdendo tutto il tempo possibile per rimandare la decisione di partire sotto l’acqua, a un certo punto piomba con un ombrello rivoltato dal vento anche la signora che lavora alla stazione meteorologica del passo, che scuote la testa e sogghigna quando le chiediamo delle previsioni. “Sempre peggio, direi. Con temperature in ribasso e molta, molta pioggia”. Sono le dieci di mattina, fuori la temperatura è di una decina di gradi e piove poco. Capisco di non avere molte altre possibilità (oltre che passare tutta la giornata nel bar) e mi imbacucco per benino prima di uscire a tutta velocità verso la strada che scende in Toscana. Dopo pochi metri, a sinistra della statale si stacca il sentiero che i segnali indicano come via Francigena: visto dall’alto è una specie di toboga di fango al centro del quale scorre un bel ruscello d’acqua. Proseguo quindi per la statale e si scatena l’uragano. Piove a vento, mentre i tuoni rimbombano molto, troppo vicini al chiarore dei lampi che illuminano di bianco la nebbia. Sulla strada l’acqua sale e, dopo neanche un chilometro dal passo, supera abbondantemente la caviglia, entrando simpaticamente negli scarponi dall’alto. Dopo un’ora inizio ad essere preoccupato: il freddo aumenta e, nonostante stia quasi correndo, non riesco più a smettere di tremare. Per fortuna, nel nebbione, compaiono le luci delle case di Montelungo, dove un bar aperto mi promette la salvezza. Il barista – che detto per inciso si chiama Giacomo – mi fornisce di una caraffa di tè caldo da almeno un litro insieme a cioccolate varie. E non batte ciglio davanti alla pozza sempre più larga e imbarazzante che si espande ai miei piedi. Strizzo le calze sulla strada, mentre Giacomo mi racconta che anche lui crede molto nella rinascita della via e che appena fuori dal paese ci sono i resti di un antico ospitale. Lo ringrazio per avermi salvato: fuori non piove quasi più e a un certo punto il sole appare tra le nubi illuminando la vallata con Pontremoli in fondo. Mi siedo su un muretto e cerco di asciugare qualcosa, poi cammino decisamente più sollevato fino in città. Come raggiungo Pontremoli, tanto per gradire, un altro acquazzone si scatena di colpo, senza neanche un istante tra il sole e il diluvio. Ma oramai il Mons Longobardorum è alle mie spalle e, se riuscirò a trovare un luogo dotato di doccia calda e filo per stendere i panni, potrò dire di aver superato indenne l’insidia maggiore della traversata dell’Appennino”.