Vivalda Editori
formato 12,5 x 20
Anno di pubblicazione 1999
Isbn 98878081406
E’ uno dei libri più vecchi. Ma è anche uno dei più amati. C’è dentro buona parte della storia della mia vita speleologica, dai corsi di speleologia al Borneo, dall’Antro del Corchia agli abissi del Pindo greco. A rileggerlo ora mi ha fatto un po’ di tenerezza, ma ho comunque pensato di non lasciarlo svanire nel nulla, già che l’editore che l’aveva pubblicato – Vivalda – ha purtroppo smesso di esistere. Quindi sto lavorando a integrarlo (non a correggerlo, per carità) con la prospettiva di pubblicarlo nei prossimi mesi come ebook su Amazon, con qualche capitolo nuovo. In fondo, come diceva Neil Young in un grande pezzo della mia giovinezza: “Is better to burn out, than to fade away”…
Questa che segue è la prefazione della nuova edizione
“Nove, dovrebbero essere le muse che vegliano sulle attività umane. Appollaiate sulle rocce sferzate dal vento del monte Olimpo o rannicchiate sulle curve sinuose dei vasi attici. Scolpite sui frontoni dei teatri dell’800 oppure nascoste tra le pieghe dei versi dell’Iliade. Le signorine di nobili origine (in fondo erano figlie di Zeus) si occupavano, e presumibilmente si occupano tuttora, delle più grandi e degne attività umane.
Citando a memoria mi vengono in mente la Poesia, la Storia, la Tragedia, perfino l’Astronomia, su cui vegliava la celeste Urania. Molti di noi, però, ritengono che il conto non sia mai stato esatto e che le muse siano in realtà dieci. Solo che l’ultima, sempre in ritardo per le foto di gruppo, sempre lenta a strofinare via dal peplo le macchie di fango, di rado appare nelle raffigurazioni ufficiali della mitologia.
La piccola Speleòmene, musa non longilinea e neanche tanto alta, come ultima nata della nobile combriccola si è andata a scegliere un’arte molto particolare: l’esplorazione delle caverne. Cioè di una parte importante di quello che c’è al di sotto della superficie terrestre che, come vi potrà spiegare facilmente qualunque geografo oppure studente di geometria, è tremendamente più esteso della semplice superficie piana e bidimensionale del nostro mondo quotidiano. Per chi fosse duro di comprendonio, basta fare un esempio banale. E’ più importante la sottile buccia di una mela oppure il suo interno, pieno di zuccheri, semi, talvolta vermi e in genere vitamine? La risposta, per la maggior gloria e la felicità della decima musa, è obbligata.
La speleologia è un’attività strana, difficile da definire, che in fondo noi ometti bipedi (e donnette anch’esse bipedi, anche se con gambe generalmente più interessanti, of course) stiamo praticando fin da quando abbiamo deciso di scendere dagli alberi, in una bella giornata di sole di un paio di milioni di anni fa.
Per grotte e caverne sono andati un po’ tutti, da Enea a Leonardo da Vinci, da Gesù bambino ai personaggi di grandi miti e di scrittori di valore. Verne e Tolkien, Salgari, Stevenson e Victor Hugo – tra gli altri – una scappata nel mondo senza sole ce l’hanno sempre fatta volentieri insieme ai loro eroi ed eroine.
Per un motivo semplicissimo.
Le grotte, con il loro buio sgocciolante e misterioso, sono affascinanti più di ogni altro ambiente terrestre. Tutto può succedere in una caverna, soprattutto il non sapere cosa si ha dinnanzi e cercare di scoprirlo con fatica, sudore, concentrazione e perseveranza.
E qui, ovviamente, va introdotto il personaggio chiave di queste righe e delle pagine che le seguono.
Lo speleologo.
L’ho sempre detto e sostenuto, fin da quando ho scoperto le grotte all’età di 15 anni: le parole hanno il loro significato. Come mai, tra un alpinista, un surfista, uno sciatore e un cicloamatore, il nostro esploratore delle caverne non si chiama speleista o speleatore, ma speleologo?
Le muse, che dall’alto di questa pagina vi guardano con serenità, l’hanno già capito.
E’ facile per loro, perché sono ragazze greche di buona famiglia e quindi ben conoscono il significato (e il valore) della parolina “logos”. Che deriva dal verbo “léghein” che vuol dire, citando a caso tra i suoi significati, scegliere, narrare, addirittura enumerare. E che offre, a noi che per anni siamo stati nel nostro piccolo esploratori del mondo senza stelle, un bell’argomento di conversazione quando ci sediamo a tavola con un climber, un surfer, un trekker, un jogger o addirittura un semi surgelato nordic walker.
Gli speleologi, almeno quelli che rispettano l’accezione migliore del termine che li definisce, sono molte cose insieme. Per viaggiare sotto la buccia del mondo bisogna essere moderatamente sportivi, acutamente osservatori, costantemente curiosi, leggermente scriteriati e soprattutto tenaci. Già, perché non è che le grotte si aprano in mezzo alla prima strada che vi capiterà di percorrere dopo aver ricevuto l’attestato da un corso di speleologia.
Tutt’altro.
Le grotte si nascondono tra le pieghe delle montagne, si divertono a restare nascoste, scommettendo tra loro su chi sarà il primo a scoprirle, scelgono di aprire i loro ingressi nei posti più scomodi, freddi e umidicci che si possano trovare in giro.
Per trovarle, bisogna camminare per decine di chilometri, studiarne le astuzie con l’aiuto di carte, fotografie e soprattutto di pile di libroni ingialliti che narrano delle vicende degli speleologi che ci hanno preceduto nella nobile ricerca.
Si diceva, quando ero giovane e cioè una bella quantità di anni fa, che oramai non ci sarebbero stati più grandi complessi sotterranei da esplorare, che del mondo senza sole era stato esplorato “il grosso”. Al contrario, dopo qualche anno, sembrava non ci fossero abbastanza speleologi per riuscire a percorrere, rilevare e fotografare le enormi cavità appena scoperte nelle pance delle montagne italiane. Per non parlare di quel che accade su monti e catene lontane anche poche centinaia di chilometri dalle rotte abituali dei viaggi e delle vacanze.
Oggi non credo ci sia più nessuno in giro che abbia il coraggio di affermare bestialità come quella che avevo udito in gioventù, anzi. Da esplorare ce n’è per tutti, basta che gli speleologi, quelli veri, allunghino il naso infangato al di fuori dai loro monti di casa, dove spesso purtroppo grandi capacità rimangono confinate nelle grotte di tutte le domeniche che magari, una visita dopo l’altra, nemmeno siamo più in grado di osservare per bene.
Ogni volta che viene pubblicato un libro di speleologia sono molto felice.
Per vari motivi.
Anzitutto perché di libri sulle grotte ce n’è troppo pochi, se solo pensiamo alla complessità dei paesaggi sotterranei e alla loro enormità.
Ci sono migliaia di volumi dedicati al bridge e poche decine alle grotte.
Ma vi sembra giusto?
In fondo – e non vorrei offendere nessun giocatore incallito anche perché in genere si tratta di figure manesche e talvolta anche ben armate – le carte sono grosso modo sempre quelle e, già che barare dovrebbe essere vietato, di che diavolo si parla in quei milioni di pagine? Quindi come dicevo sono felice in occasione dei parti di nuovi libri sul mondo sotterraneo, perché ognuno di questi, pur con degli elementi comuni, apre una finestrina differente nella visione generale delle caverne.
Secondo motivo di allegria consiste nel pensare che, finché qualcuno scrive libri di speleologia (e qualcuno li compra, tanto per non dimenticare la vile pecunia che affluisce sonante nelle tasche degli editori) vuol dire che aumentano le possibilità che ci siano nuovi speleologi.
Negli anni ’50 Chuck Berry ha inventato il rock’n’roll e gli speleologi italiani erano circa un migliaio. Alla fine dei ruggenti anni ’60 i Jefferson Airplane erano al culmine della loro parabola (come dimenticare la dolce e conturbante Grace Slick nell’alba di Woodstock?) e gli speleologi del Belpaese erano più o meno sempre mille. Nell’epoca buia e negativa della disco music il numero non è cresciuto e oggi ho l’impressione che le giovani generazioni di curiosi non subiscano massicciamente il fascino della speleologia. E che, andando per grotte, si possano incontrare spesso sedicenti speleologi ultracinquantenni imbottiti di viagra e gerovital, che non demordono solo perché molto cocciuti e sostenuti da una scienza medica che, lei sì, ha fatto passi da gigante.
Lo ammetterò, non è che la speleologia sembri molto attrattiva al grande circo dei media. Ricordate pubblicità ambientate in una grotta?
Ridenti signorine che reclamizzano un lucidalabbra in una caverna?
Simpatici vecchietti che mangiano con gusto sofficini in una galleria allagata?
Io no.
La speleologia non è un affare mediatico, i giornalisti in grotta non ci vanno, i fotografi tanto meno (escludendo ovviamente da queste due categorie gli speleologi che sono anche giornalisti o fotografi, credo cinque in tutta Italia). I telegiornali le grotte le guardano con sospetto solo dall’esterno, forse proprio perché luoghi dove gli anchormen e i mezzibusti non possono andare. E dove le storie le possono raccontare solamente quelli che ci vanno per davvero.
Ed ecco qui, finalmente la chiave della fortuna della vecchia Speleòmene. Grotte, caverne e abissi possono essere percorse solo dagli speleologi e dalla loro musa abbigliata di cordura, da nessun altro! Quale miglior motivo per decidere di punto in bianco di dedicare tutte le proprie energie alla ricerca delle più profonde cavità del Gargano o delle più lunghe gallerie dell’Ucraina?
Un mondo senza tv, dove i cellulari non suonano (perché non possono, potendo loro squillerebbero volentieri), i programmi tv da satellite non arrivano.
E dove i modelli da seguire non sono quelli dei tronisti e dei calciatori, ma magari quelli della saggezza di Groucho Marx e della tenacia dei grandi esploratori, da Colombo a Martel, da Marco Polo a Claude Fighiera. Capperi, se le grotte non ci fossero bisognerebbe inventarle, non fosse altro che per questo”.
Nota: questa prefazione, in origine, l’avevo scritta per un libro dedicato alle grotte scritto da un conoscente. Ma, e penso lui non si offenderà, già che mi era venuta benino ho deciso di utilizzarla – con qualche ovvia leggera modifica – per farvi entrare nelle “pagine” anche del mio libro. Che, qui di seguito, sta per iniziare.